I cārī sono pratiche di centratura e radicamento che permettono di comprendere meglio come ci muoviamo, mentre ci muoviamo, per allineare il nostro essere con bellezza.

Cosa sono i cārī

I cārī sono dinamiche di spostamento che nascono dalle descrizioni presenti nel yaśāstra , antico testo pan-indiano di teoria teatrale ascritto alla figura mitica di Bharata. Sono così definiti (libera traduzione):

Cārī è quell’attività in cui i movimenti delle mani, dei piedi, dei polpacci, delle cosce e del bacino è svolta in mutua concordanza.

I cārī possono essere definiti vyāyāma (esercizi), perché sono governati da regole e quando gli arti si estendono, il loro movimento avviene in una relazione di reciproca connessione.

Questi “esercizi”, come vengono definiti nel testo, arrivano a noi sotto forma di descrizioni di come posizionare i piedi, le cosce e le ginocchia nelle trentadue variabili note come bhumī e ākāša cārī.

Con bhumī cārī si intendono esercizi legati alla terra (bhumī), in cui entrambi i piedi appoggiano al suolo.

Con ākāša cārī ci si riferisce invece a esercizi in cui un piede rimane al suolo e l’altro viaggia nello spazio (ākāša), vale a dire dinamiche in cui dobbiamo negoziare con lo stare in equilibrio.

Nonostante nell’esposizione generale dei cārī venga citato anche il movimento delle mani, nelle singole presentazioni di ogni movimento date da Bharata compaiono indicazioni solo relativamente alla parte inferiore del corpo.

Nāṭyaśāstra, il testo di riferimento

Per contestualizzare correttamente i cārī bisogna partire dal Nāṭyaśāstra, il più antico trattato sul teatro, ascritto alla figura di Bharata.

Nel Nāṭyaśāstra la forma umana viene analizzata dalla testa ai piedi per mostrare le possibilità di movimento di ogni segmento del corpo e i loro utilizzi per esprimere emozioni e stati d’animo. La struttura anatomica viene prima frammentata in parti principali – testa, tronco, bacino, piedi, mani – per poi essere esplorata con assoluta precisione fisiologica nella possibilità motrice di ogni singola parte, assumendo un significato che si situa al di là di un uso puramente quotidiano del corpo.

Come per qualsiasi śāstra – qui inteso come “manuale di istruzioni, testo di sapere” – possiamo pensare che ciò che troviamo scritto nel testo non rappresenti il vero insegnamento, ma solo la sua superficie. Quindi l’unico insegnamento che conta è quello che proviene dalla trasmissione orale.

Essendo una tradizione prettamente esperienziale, basata sulla pratica, la necessità di qualcuno che mostri e spieghi come fare in pratica i vari cārī è di vitale importanza.

La trasmissione orale di queste dinamiche si è persa attraverso i millenni e la loro esecuzione può essere oggi ricostruita a livello tecnico solo attraverso un lavoro di interpretazione. Non possiamo sapere in quali modi venisse eseguita la sequenza dei cārī ed è falso assumere che quello che rappresentiamo oggi sia la versione originaria.

Come sono stati ricostruiti i cārī

A una prima lettura del testo, i cārī possono apparire come una descrizione un po’ bizzarra di modi di articolare la parte inferiore del corpo. L’autore dice esplicitamente che questi movimenti devono essere adattati e – essendosi persa la trasmissione orale – ci appoggiamo per la loro esecuzione all’interpretazione che ne ha dato la danzatrice e ricercatrice Padma Subramaniam.

Subramaniam ce li presenta coreografati in una sequenza che viene generalmente presa come “modello originale” da parte di chi ne intraprende la pratica. Pur riconoscendo l’indubbia bellezza e utilità del suo lavoro, articolato in una sequenza coreografata su diversi ritmi, va tuttavia ricordato che la sua è un’interpretazione di come le descrizioni del Nāṭyaśāstra possano essere intese.

Abbiamo studiato il lavoro codificato da Subramaniam con Dominique Delorme, suo discepolo che da oltre trent’anni ripropone il frutto della ricerca della sua maestra. Abbiamo potuto constatare come la sequenza che insegna sia rimasta fedele alla codificazione originale nell’arco del tempo.

Una visione contemporanea

Una stimolante evoluzione contemporanea della sequenza di Padma Subramaniam è quello della danzatrice e coreografa Bijayini Satpathy. La sua ricerca si avvale della guida di Irene Dowd, insegnante di anatomia funzionale e cinestetica che col suo lavoro ha influenzato generazioni di danzatori.

Satpathy mantiene la sequenza dei trentadue cārī pressochè identica a quella codificata da Subramaniam, ma elabora una prima resa che esclude completamente il lavoro del bacino e della parte superiore del corpo. Si occupa solo del movimento delle anche e dei piedi in relazione al peso e lo illustra con profusione di dettagli tecnici e anatomici senza stressare l’elemento ritmico. Procedendo così, Satpathy ha sollevato l’elemento culturale. Il lavoro di piedi e anche che propone è un lavoro che ha una valenza transculturale a cui può riferirsi chiunque sia interessato al movimento.

Solo a un livello successivo Satpathy riporta un’identità culturale alla sequenza dei cārī, aggiungendo la possibilità di integrare anche il movimento del bacino del tronco e delle braccia, nel suo caso entro lo stile odissi.

Rimane ben consapevole dei vari livelli di lettura attuabili e quindi delle infinite combinazioni che si possono esprimere e – punto di vista rivoluzionario nell’ambito della danza indiana – sottolinea che la soluzione da lei proposta è una possibilità, non un dogma.

Dopo aver posto le basi tecniche per muovere la parte inferiore, invita a sperimentare da sé all’interno del proprio linguaggio per trovare connessioni e combinazioni possibili tra gambe, braccia e bacino.

Una chiave di lettura: Bharata e Feldenkrais

Il lavoro qui proposto nasce dagli insegnamenti di Dominique Delorme e Bijayini Satpathy (appresi tra il 2005 e il 2021) e si sviluppa attraverso una personale ricerca che origina dalla necessità di ricostruire un corpo danzante fortemente destrutturato a seguito di un intervento chirurgico al cervello.

Prende come punto di partenza lo studio dell’appoggio del piede visto attraverso una lezione di Feldenkrais, illustre scienziato, maestro di arti marziali e studioso dello sviluppo umano, oltre che precursore di conoscenze nell’ambito delle neuroscienze.

La meraviglia fu tanta quando si arrivò a notare l’esatta corrispondenza tra le cinque possibilità di movimento del piede descritte dal mitico Bharata duemila anni fa con quelle analizzate dal genio di un uomo occidentale del XX secolo.

Si potrebbe dire che Feldenkrais qui si pone come punto di raccordo tra noi e il testo. È l’oralità mancante, quella che si è persa attraverso i millenni e che ci avrebbe forse istruito su come tradurre attraverso l’intelligenza cinestetica i movimenti dei piedi (e del corpo tutto) descritti da Bharata.

Entrare nei cārī attraverso questo minuzioso lavoro di indagine dei propri appoggi stimola la consapevolezza che “non sapevamo di non sapere” che il nostro piede poggiasse da tempo immemore in modo casuale e forse disfunzionale, aprendoci a un inaspettato cambio di punto di vista su noi stessi e su quello che ci circonda.

L’indagine degli appoggi non può per noi essere dissociata da quella dell’ascolto del peso che stimola l’abilità di riconoscere e creare modelli di movimento più efficienti e spontanei. Mappare con minuzia l’oscillare del nostro peso fino a poter scegliere consapevolmente come lasciarlo scorrere, ci conduce a poter costruire con intelligenza e sensibilità una diversa stabilità.

Le possibilità di movimento si moltiplicano e si può procedere all’integrazione di tutto il corpo, consapevoli che nessuna parte può muoversi senza che tutte le altre non ne vengano influenzate.

A chi si rivolge

Questa pratica a livello individuale è adattabile a ogni persona, con o senza esperienza nel campo del movimento, a seconda di ciò che si è interessati a indagare.

Le pratiche di gruppo si tarano sul livello dei partecipanti e ci si muoverà meglio al suo interno se si è già avvezzi a navigare nel corpo.

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